mercoledì 24 giugno 2009

Aula

Aveva preparato quella giornata, come tante altre prima, con la stessa meticolosa cura. Ogni dettaglio studiato in modo perfetto, dall’argomento, alla documentazione ed anche il suo abbigliamento.
Fine, graziosa, seducente.
Sapeva di avere un potere oltre l’immaginabile, sapeva e ne era cosciente. Avrebbe ricevuto complimenti, di cui non poteva fare a meno, avrebbe ricevuto sorrisi, sguardi. L’adrenalina l’avrebbe schiacciata come sempre, liberando tutta l’energia in suo possesso e facendola camminare a due metri dal pavimento.
Ormai viveva di questo. Del sentirsi al centro dell’attenzione, del piacere, per piacersi.
E tutto procedeva secondo i suoi piani. O quasi. Non era preparata a quello che aveva di fronte. Non l’aveva previsto.
Si muoveva nell’aula con la sua solita sicurezza, delicata come una farfalla, frusciante e leggera. Sui tacchi altissimi, sulle gambe sottili da cerbiatta.
Parlava con gestualità controllata, calibrando il tono della voce che a tratti diveniva seducente. Le mani si libravano, sottolineavano, descrivevano il senso, il contenuto, il peso di ogni parola detta.
Ma diversamente dalle altre volte una leggera inquietudine s’impadronì di lei. Traspariva dall’incessante sollevarsi ed abbassarsi del suo seno, impercettibile ma evidente ad un occhio esperto. La giacca, corta e stretta sui fianchi sottili, allacciata solo da un bottone in vita, lasciava scoperta la maglietta troppo scollata e la curva dei seni con il loro incessante alzarsi ed abbassarsi.
Anche le mani, di solito sicure, presero a tremare invisibilmente, come una sottile luce che vibra senza dare presenza di sé ad occhio nudo. Mani piccole, discrete, curate, che nervose sfioravano ogni cosa che toccavano, con delicatezza, sinuosità.
La chiamavano, le chiedevano, le comunicavano e lei pronta, sempre in ogni istante a comunicare con ognuno di loro.
Tranne lui.
Seduto in ultima fila, capelli lunghi, brizzolati, carnagione scura, con un’aria trasandata da eterno ragazzo, la spogliava con quei meravigliosi, inquietanti occhi azzurri. Accarezzava con lo sguardo le sue forme, seguiva il tratto ondulato dei suoi fianchi, delle sue cosce, dei suoi seni, delle sue braccia.
Camminava in mezzo ai tavoli, parlava con ognuno la chiamasse.
Tranne che con lui.
Aveva pronunciato un asciutto buongiorno al suo arrivo. Poi niente più. Aveva fame della sua voce.
Era consapevole dei suoi occhi su di lei, del tocco del suo sguardo sulle sue gambe, di quella penetrazione dolce e azzurra, che sentiva anche quando era seduta, a ginocchia strette. Lui entrava, l’accarezzava, si scioglieva sotto il suo sguardo. Mentre si muoveva, percepiva la presenza di lui, come un dolce peso sulle spalle, sui fianchi, sulla vita, sul ventre.
Troppo spesso gli occhi di lei si posavano su quelli di lui, sempre fissi su di lei, pungenti, quei suoi maledetti occhi azzurri. Splendidi da togliere il fiato, chiari come l’acqua, insidiosi come un laser.
Comunicazione verbale. Comunicazione non verbale. Gestualità. Comunicazione del corpo. I titoli erano tutti scritti sulla lavagna ed ogni titolo era la personificazione della sua immagine, del suo corpo, di cui era così consapevole.
Scriveva alla lavagna, con movimenti lenti, come per sottolineare la sua presenza. Il pennarello cadde, lei si chinò a raccoglierlo, scendendo giù con la schiena, come le lavandaie al torrente, china su se stessa. Il tessuto trasparente della gonna, svasata, lunga appena sopra il ginocchio, aderì alla sua carne, mostrando il colore indistinto della sua pelle rosata.
Si rialzò con lenta naturalezza, lasciando il tessuto accarezzare, sfiorare, eccitare. E non fece nulla per evitare che la stoffa rimanesse incastrata nel taglio della schiena, lasciando immaginare il sottile indumento indossato sotto. Con la stessa naturalezza non si aggiustò la gonna. Lasciò che gli occhi cadessero sulla linea dei suoi glutei e delle sue cosce, cogliendo tutti gli sguardi su di sé.
Una pausa, un caffè. Tutti uscirono. Solo lei, solo lui rimasero nell’aula.
Sei troppo distratto. Cosa sei venuto a fare?
Lo sai che amo guardarti muovere in mezzo ad altri uomini. Guardare come ti atteggi e ti rendi provocante. E mi eccito al pensiero che loro ti eccitano.
Hai ascoltato quello che ho detto oggi?
No.
Se non ascolti, poi non ti rispondo quando hai bisogno di me.
Sono sempre il tuo capo. Mi devi ubbidire, senza obiettare.

(mirtilla)

lunedì 22 giugno 2009

Raso nero

Ormai aveva dimenticato di possederlo.
Non ricordava più quanto tempo fosse trascorso da allora.
Quella notte lasciò un segno così profondo nei suoi ricordi, che anche ora a distanza di molti anni, le pareva di sentirne il profumo, di percepirne le vibrazioni, di accogliere dentro di sé il seme del desiderio.
Quella notte la musica era dentro e fuori di lei. E così pure la favola che stava vivendo, la passione che sentiva scorrerle in mezzo alle gambe.
Sentiva che sarebbe stata una notte meravigliosa. Lei, lui, sotto un cielo stellato.
Il momento era adatto a ciò che stava per accadere; ogni cosa, ogni creatura divina si adoperava affinché avvenisse ciò che doveva essere. Non si udivano rumori, anche la natura attendeva in rispettoso silenzio.
Era notte fonda e lei era nera e profonda come la notte.
Apparve all’improvviso, per magia.
Bella, la più bella dea di ogni tempo; splendida e terrificante.
La più bella femmina mai vista. Ogni volta che si mostrava, sconvolgeva gli animi, la mente e i sensi di ogni uomo.
Tutti erano folgorati da lei.
E lei si dava, lei si concedeva, lei sceglieva, lei che in nessun caso si lasciava andare, donava solo ciò che voleva.
Era lì davanti a lui. L’aveva aspettata per un tempo infinito, incalcolabile, l’aveva desiderata da sempre, l’aveva tormentato per troppe notti. Si era svegliato bagnato, sudato, agitato ed eccitato dal ricordo dell’amore vissuto durante il sogno.
Ed ora lei era lì davanti a lui. Spaventosa, elettrizzante, avvolgente, irresistibile.
Ora che era lì per lui, non aveva nemmeno il coraggio di toccarla. E non ce ne fu bisogno.
La guardava, inconsapevole del suo ruolo di amante perfetto. Si era sentito forte della sua esperienza e della sua età, aveva percepito il proprio potere nei confronti di una donna molto più giovane, seppur così bella e sconvolgente.
Le cose non stavano andando come previsto. Si era immaginato di conquistarla con il suo fascino, prenderla di forza come un animale, con violenza, mentre ora si sentiva sopraffatto da lei.
Perché aveva scelto quel luogo desolato, perché aveva indossato quell’abito, perché sentiva già il desiderio crescere il lui, il sesso irrigidirsi e la voglia di possederla farlo impazzire?
Quel posto e quell’abito li aveva scelti per lui, perché non avesse altri pensieri che lei, perché tutto il mondo fuori fosse cancellato in un attimo ed in quel bosco, quella notte esistessero solo loro due.
Lo voleva sentire pregarla di donarsi a lui, voleva sentirlo piagnucolare che lei e solo lei era la sua vita e che senza di lei non aveva più aria da respirare.
Quell’abito, così perfetto su di lei, così sensuale, luminoso come i suoi occhi, lungo fino ai piedi scalzi, seguiva le colline dei seni, s’insinuava nel taglio della vita, disegnava le curve pronunciate dei suoi fianchi e dei suoi glutei. Le spalle nude erano ricoperte dalla cascata fluente dei capelli corvini, un mantello soffice e ondulato, di lunghe setole che profumavano di gelsomino.
Il fiato gli mancò, l’ossigeno era saturo del profumo della sua pelle, l’odore che emanava lo stordiva.
S’avvicinava a lui, ondeggiando i fianchi come una barca cullata dalle acque del porto, sbatteva le anche come una leonessa carica di desiderio. Le sue labbra carnose e dischiuse, erano gonfie come frutti maturi.
La luce della luna la illuminava da dietro, il suo volto, il suo corpo, il vestito, i capelli, tutto era oscurità, una dama nera avvolta da un’aura luminosa, troneggiava su di lui. I capelli accarezzati dal vento, si sollevavano in deliziose onde disordinate. Il lungo vestito frusciava attorno ai suoi piedi, come una musica di viole e arpe, che ne annunciavano l’arrivo.
Sentiva di non avere più la forza di resistere. Era troppo per lui. Nemmeno nel sogno l’aveva immaginata così bella.
Una strega, sì, era di sicuro una strega.
Quando gli fu vicina, la guardò in viso. I suoi tratti marcati, i suoi zigomi sporgenti, i suoi occhi allungati, la bocca piena e sugosa, il trucco nero come il vestito e come i capelli. Dio com’era bella!
Una notte interminabile. Non si rese conto di quanto lunga o corta fosse. L’amò fino al sorgere del sole ed il suo ricordo rimase inciso nella memoria per tutta la vita.
Ricordava perfettamente ogni istante. Il momento in cui appoggiò le mani sui suoi fianchi e con le dita palpò la morbidezza e la freschezza del tessuto, che scivolava su di lei ad ogni movimento.
Non dimenticò mai quel tocco, anche ora poteva percepirlo, a distanza di molto tempo.
Ricordava perfettamente le sue colline ricoperte di nera stoffa lucente e il momento in cui sganciò l’allacciatura che manteneva unito il tessuto, lasciando cadere la veste che scivolò con un delicato fruscio ai suoi piedi.
Questa volta il respiro cessò del tutto.
Il suo corpo era una statua di Venere, che arrivava a lui per condurlo alla disperazione dei sensi, la sua bocca era un cesto di frutta che profumava come le fragole di bosco e come le more sui rovi, le sue mani erano lunghe e affusolate, le dita come frecce scoccate dall’arco di Cupido, pronte a colpirlo al cuore, la sua pelle era morbida e liscia come il raso, come quel vestito caduto a terra, che al tocco sembrava ancora indossare, pelle bianca come la cera e come il chiaro di luna, gli occhi brillavano come le stelle del firmamento, luminosi come fuochi, accesi come torce per illuminare il cammino dei disperati di cuore e dei senz’anima.
Le mani di lei lo presero e lo esplorarono in ogni piega, disegnando ogni muscolo; mani esperte, piccole mani, frementi di desiderio, che si aprivano e si chiudevano per accarezzare e stringere.
Le labbra di lei si aprivano come petali di una rosa fresca e profumata, per raccoglie la rugiada del mattino e bere, assetata di siero.
Lui l’amò come mai aveva amato e come mai più amò nessuna.
La notte li protesse, non avrebbe permesso a nessuno di interferire nel loro amore.
Non si incontrarono più, il loro amore, perché questo fu, durò solo quella notte.
Dimenticò il suo volto, ma non dimenticò mai il tocco delle sue mani sui suoi fianchi, che accarezzavano il tessuto dell’abito di raso nero che era appeso nell’armadio da quella notte e che in nessun altra occasione indossò più.

(mirtilla)

giovedì 18 giugno 2009

Parlami!


- Parlami!
Era il suo imperativo.
Ogni volta era questo il suo monito.
Dovevo parlare.
Non sapevo chi fosse, né come fosse, né dove.
Sapevo che era femmina, lo speravo.
Mi teneva incollato alla tastiera, per ore.
Ed io non riuscivo a lasciarla.
Lei, poche frasi, una ogni tanto; io, parlavo, parlavo, per ore.
Mi incuriosiva.
Era dolce, delicata, emotiva.
- Amo le tue parole – mi scriveva – sono la mia musica, il mio siero per l’anima.
- Ogni volta mi sento sempre più prosciugato da te – le rispondevo – anche io ho fame delle tue parole.
- Parlami!
E allora le parole precipitavano come una cascata di acqua cristallina.
Erano dolci o salate, adatte alla circostanza.
Ero il suo artista, per lei dipingevo quadri con le frasi. Tiravo fuori ciò che di meglio avevo in me.
Perché lo facevo? Ancora non mi era chiaro.
L’avevo incontrata in chat. Si faceva chiamare “ingorda”.
La volli conoscere, la chiamai e le chiesi perché il nickname “ingorda”.
E lei mi scrisse:
- Parlami! Sono ingorda di parole.
Mi disse che aveva 28 anni. Le chiesi di incontrarci.
- Non voglio conoscerti, voglio parlarti. Potrei morire senza parole. Toglimi il pane, l’aria, il sonno; non togliermi le parole. Dammi la poesia, l’anima, il cuore, ogni parola che tu mi lasci è un gioiello d’oro, una perla di sapienza in un mare di gusci vuoti. Colora con le tue rime i miei cieli oscuri. Ridai vita con il tuo nutrimento alle gemme del mio giardino. Non lasciare che il mio tronco secchi, così come una pianta che senz’acqua, si accartoccia su se stessa e lascia questo mondo. Non lasciarmi senza parole. Ho conosciuto freddezza, ho incontrato cattiveria, ho toccato l’indifferenza. Questa è la morte per me. Potrei vivere una vita senza amore, senza carezze, senza baci, ma non senza parole.
Le dissi che la volevo incontrare.
L’aspettavo al centro della piazza e fu lì che la vidi arrivare. Piccolo bulbo, raccolta in sé come una piccola rosa, gracile e indifesa. Occhi impauriti e terrore dentro. Fu il suo sorriso spento a toccarmi il cuore.
Le presi le mani e la guardai dritto negli occhi. Lei li abbassò. Arrossì fino alla punta dei capelli.
Non parlò, ascoltò soltanto la mia voce. La vidi ridestarsi, sollevarsi su se stessa ad ogni parola. La presi in braccio con una leggerezza tale che mi parve di sollevare una bambina. Tremava come una foglia, sbattuta dal vento. Aveva paura di tutto … di sé, di me, degli uomini …
Mi sussurrava nelle orecchie “Parlami!”
La sua voce mi eccitava, quelle poche parole, sussurrate così, piano, piano, piano …
Io ero molto più grande di lei, ero molto più grosso di lei, avevo paura di farle male.
Le parlai per ore e me ne innamorai. L’amai per tutta la notte, recitandole poesie, raccontandole della mia vita, donandole il meglio della mia anima.
Lei mi guardava con i suoi meravigliosi occhi verdi, che diventavano sempre più luminosi, mano a mano che le parlavo.
Di lei sapevo solo una cosa, l’unica parola che in tanto tempo era stata capace di pronunciare: “Parlami!”
(mirtilla)

mercoledì 10 giugno 2009

Frammenti d'anima

Leggo "Frammenti d'anima" e piango.
Spero farò piangere anche voi.

(mirtilla)